Ci sono tanti modi per vivere una città, forse la vita stessa. Così come ci sono tanti modi di essere, di muoversi, di esprimersi, e, in qualche modo, di imporre te stesso a te stesso. Così sono partito con la Squadra ed una Fiat Multipla alla volta di Sarajevo. Alla volta di un sopralluogo, nonché momento di grande ispirazione, nonché prima trance di riprese di un documentario, nonché ispezione sul campo di un lavoro su cui avevo delle premesse incerte. Si parlava di guerra, si parlava della distruzione, di una cultura, di un popolo, di un epoca. Ma non essendo propriamente un esperto della materia e confidando degli autori ero sicuro che avrei avuto le giuste risposte una volta vissuta quella breve ma intensa esperienza.

Premetto che il documentario sia stato una forma di espressione che non avevo ancora sperimentato a pieno, così come invece avevo fatto nei lavori di finzione. Pensavo di voler imporre una creazione a tutti i costi. Il che comporta continue complicazioni. Costi esorbitanti e la capacità di vagliare tutta una serie di aspetti dettagliati mesi e mesi prima di renderlo finta realtà.  Ma soprattutto quello che mi ha più affascinato nella mia ancora breve carriera è stata la possibilità di immaginare, creare, ricostruire una realtà che possa essere assunta nelle persone col giusto grado di verità, in grado di trasformare e veicolare le emozioni della vita, che a volte la realtà stessa nasconde.

Sono stato chiamato ed io, che non aspetto altro che infilarmi in situazioni nuove, ho accettato senza esitare. Così facendo mi sono posto una domanda fondamentale: “Che cos’è un documentario?”. Il documentario è una narrazione della realtà. Una narrazione personale, autoriale, la ricerca di un rapporto umano, l’immergersi in una realtà, viverla, e raccontarla attraverso una forma di creazione che segua il proprio istinto, la propria sensibilità, la propria capacità e tecnica di narrare.

E ho compreso che essere filmmaker ti da in un documentario la forza di lasciarsi andare, di perdersi nell’imprevisto, di non prevedere tutto e tutti. L’obbligo di farsi venire un idea,  per scoprire un modo più immediato e più istintivo di percepire la bellezza della realtà, e osservarla, in silenzio, e mostrarla sotto un occhio differente, mettendo un ordine alle cose, ovviamente soggettivo. La funzione dell’arte in fondo è questa. E’ lasciarsi andare alla natura delle cose e vivere in fondo una realtà di ricerca, come “Alice nel paese delle meraviglie”, e sorprendersi, stupirsi, nel bene e nel male.

E ho scoperto la formula audiovisiva forse più vicina al mio modo di vedere, pensare e concepire la realtà e l’arte audiovisiva.

Vous êtes nombreux, merci. C’est magnifique. Combien de fois ai-je pensé … qui sait, qui sait, qui sait. Arrivé à l’aube de la quarantaine, quand tout semble assez indiqué, peut-être pas parfait, bien sûr, ces jours-ci n’y a jamais rien pour sûr, viennent à l’aube des quarante-je dit que parfois il m’arrive d’explorer les coins cachés de la mémoire. Souvenirs poussiéreux, qui, si nécessaire sont encore vivants et qui vivent en moi, comme des fantômes jamais effacé. Je me demande souvent ce qu’est la vie appartiennent à une autre vie peut-être, mais non, c’est la vie, merde, qu’est-ce que j’ai fait pendant tout ce temps, c’est une vie qui parle pour lui-même et je n’ai pas jamais savoir … Parfois, je cherche un rendez-vous avec ces spectres, ils attendent dans les jours vides, jours sombres, il ya toujours un jour sombre où un sens extrême de malaise vous assaille, et ne sais pas pourquoi. Aujourd’hui est le jour où je parlais de l’obscurité, mais maintenant je suis ici, devant vous, pour expliquer les tenants et aboutissants de ce film qui va bientôt commencer. Moi, je ne sais vraiment pas quoi vous dire maintenant, avant ou après. Je n’ai jamais bien compris le film débat, affirme le directeur, je n’ai jamais compris ce que vous voulez vraiment comprendre ce que vous venez de voir. Pourquoi tout est ici, et devrait être suffisant.Pour ceux qui me demandent, c’est une histoire vraie?, Pour ceux qui me demandent pourquoi je dis maintenant, qui s’en soucie, le film est une fiction, est une grande mélancolie et la belle histoire d’une réalité qui n’existe pas. Rien n’est vrai, et pourtant, tout était réel, il est toujours vraie, parce que j’ai été de me dire, je vis la vérité et la fiction, je joins à cette histoire ici, parce que c’était un acte nécessaire àpour moi, et je sais que ne sera pas pour tout le monde. Parfois, mais pas toujours connaître chaque instant est ici pour nous donner un sens, chaque action, une phrase, personne, chaque image, chaque son, chaque couleur, chaque chose est ici pour être dit, transformé. La réalité est un menteur, et je suis le menteur de tous dans cette salle. Je vous remercie.

this-must-be-the-place

Il cinema dei fasti, si sa, è andato. Forse non è mai esistito, o forse, si usano parole troppo grosse per definire le epoche in cui viviamo. Ebbene. Qualunque cosa si pensi sullo stato del cinema, sul cinema italiano, sulla cultura italiana, ecc, ecc, il sistema cinema, e soprattutto Torino, anzi, la Film Commission Torino-Piemonte, assieme a Film Investimenti Piemonte (FIP) e in collaborazione con FinPiemonte e Confindustria ce l’hanno messa tutta per dimostrare come il cinema, il sistema cinema, l’industria cinema, e i vari attori coinvolti nella realizzazione e nella diffusione di un film, quali società di produzione, fondi di sostegno pubblici, investitori privati, distributori, banche, microcrediti, possano ancora vantare una vitalità eccezionale, e un vantaggio economico per chi investe sul cinema.

E’ frutto del workshop New Business? Show Business, svoltosi Martedì 19 Aprile presso il CinePorto, in via Cagliari. C’erano le istituzioni, locali e nazionali, c’erano i rappresentanti di banche, c’erano i produttori e le produzioni italiane, c’era una platea “ingiaccata” e interessata. Perché si parlava di soldi e nella fattispecie, senza inalberarsi in economicismi complessi, di un esperimento, unico in Europa, della cosiddetta “tax credit” esterna, sul modello di sostegno per lo sport che vige dagli anni 60. Trattasi di associazione di partecipazione finanziaria ad un progetto filmico da parte di aziende che decidono di investire dei soldi, fino ad un limite di 2,5 milioni di euro, e fino al 49% del budget del film. Principale discriminante: non far parte del cinema. I film si aprono dunque, al di là dei famosi Product Placement, a veri e propri finanziamenti da parte di privati che in cambio di una spartizione di utili successivi del film, investono di capitale utile e fondamentale per la realizzazione del film.
E’ stato il caso dell’ultimo film di Paolo SorrentinoThis must be a place, in concorso al prossimo Festival di Cannes, che ha visto la partecipazione del microcredito Intesa Sanpaolo, oltre che a produzionissime come Medusa,Lucky Red e Indigo Film. E’ il caso di alcuni film di prossima produzione, che in questa sede, si aprivano al mercato degli investitori piemontesi.

Un successo, pare, visto che in soli 4 mesi l’investimento complessivo di privati ha raggiunto i 20 milioni di euro, più dei 16 che il Ministero della Cultura investe per il Cinema. Un successone quindi. Che potrebbe dare una svolta al sistema, sicuramente una corsa al privato che tanti temevano, altri auspicavano, altri avevano attuato già da tempo, visto che, il cinema, quasi da sempre, ha sempre avuto il cappello pieno di soldi del ministero, o fondi della comunità Europea, visto che c’è sempre una commissione dalla tua parte, visto che, i soldi, onestamente ce ne sono sempre meno.

C’è da dire che il cinema è un industria, è un’attività commerciale, una macchina che impiega centinaia di lavoratori, produce utili, a volte perdite. Ma il cinema è comunque un’ arte. Un’arte costosa, costosissima. Dunque ci si toglie il cappello dell’assistenzialismo e ci si apre al mercato. O meglio, lo Stato rinuncia a parte delle tasse per dare linfa a nuove produzioni cinematografiche, e quindi nuovi film. Senza dipendere dai Ministeri come spesso è accaduto, ma da imprenditori che vedono nel cinema come ad un modo interessante per fare degli investimenti.
Proprio quando Fidel Castro cede definitivamente al fratello, e Cuba si apre ai capitali stranieri, ecco che il cinema si apre definitivamente al fondo dei privati.

Ora sarà una guerra ad accaparrarsi questo o quell’imprenditore, forse sarà un modo diverso per far fare agli stessi attori del mercato lo stesso giro di soldi, ma con il rischio dell’impresa, forse si perderà qualcosa in termini di arte cinema, forse l’abbiamo già perso, forse la cultura stessa con cui siamo cresciuti ci impone questa nuova visione delle cose, la crisi, la globalizzazione, vendere, marketing. Chi lo sa. Nel frattempo Moccia aspetta un investitore privato, ed è un peccato non poter disporre di milioni di euro per farlo. Peccato. Ma quell’ intrattenimento di serie, indice, veicolo, e specchio di una società, che negli ultimi tempi ha generato quella nuova generazione di registi e sceneggiatori, e che incassano ai botteghini milioni di euro, e che saranno sicuramente coinvolti e avvantaggiati in tutto questo business, che cosa faranno al cinema Italiano? Chissà se con questa logica Sorrentino sarebbe mai diventato Sorrentino, o Moretti il signor Moretti, chissà, in un mondo regolato da esclusive logiche di mercato e da imprenditori poco avvezzi al cinema, che ne sarà?
Lo scopriremo solo vivendo perché è già realtà. In fondo si ritornerebbe un po’ al Mecenatismo, ed un po’ di fascino storico viene in mente.
Nel frattempo però ci saranno più soldi. E Moccia farà il seguito del suo film, ed io sono molto contento.

La verità

Pubblicato: marzo 29, 2011 in riflessioni, storie, Uncategorized
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Dicevo? Ah, si. Il giorno delle elezioni. E delle valutazioni, e delle “palindromie”, e delle stanze dei bottoni, e dell’investigatore privato che pensava a sua figlia. Già, perché si fa presto a dire genitori.

Dal punto di vista etimologico è chiaro, ma suppone un assenza dell’atto seguente al semplice generare, procreare, dare vita, essere padre. Era sempre lì il nostro bravo investigatore privato, che incontrai in quello studiolo triste e spoglio di quella città troppo grande per dar posto a quiete, silenzio, solitudine. No, quella città è troppo grande per essere soli. Incrociava gli sguardi dei passanti senza essere visto. Oramai era abitudine non farsi vedere, non dare nell’occhio, quasi da convincersi malinconicamente di non esistere più. Eppure è li davanti alla finestra. E piove, pensando alla figlia, e scoprendo con lei, a poco a poco, il significato della parola vita. Dai tempi in cui lavorava per il governo, sempre da solo, sempre in incognito, sempre invisibile, sempre in vicende e faccende che nessuno poteva sapere, perché ci sono quei segreti inconfessabili che salvano la verità dagli effetti stessi che la verità provoca a se stessa e agli altri.

E come aria si dissolveva nei silenzi e nei rumori indiscreti delle nostre vite. Come aria il vero e il falso si aggiungeva a quel miracoloso marasma di gas, di azoto, ossigeno, argon, vapore acqueo, biossido di carbonio, neon, elio, metano, idrogeno, kripton, xeno, ozono, ossidi di azoto, monossido di carbonio, ammoniaca, biossido di zolfo, solfuro di idrogeno, e quindi alle tavole di chimica, alla reazioni, ai reagenti, i prodotti, il bilanciamento delle masse, che nulla si crea e nulla si distrugge, e di quanto passi gran parte della vita a subire un sacco di insegnamenti quando non sei assolutamente pronto e conscio delle cose, del fatto che prima o poi quell’insegnamento ti servirà a qualcosa, e che forse ti verrà in mente, almeno per ricordare quando ti è capitato di imparare, con chi, quando non capivi quanto un giorno ti sarebbe servito. Prima o poi. E la verità allora diventa uno scherzo, un gioco, una missione, una vittoria, la fine dei tuoi sforzi. Se ciascuno può dire qualcosa intorno alla realtà, e se, singolarmente preso, questo contributo aggiunge poco o nulla alla conoscenza della verità, tuttavia, dall’ unione di tutti i singoli contributi deriva un risultato considerevole. Ed allora la ricerca diventa un compito a volte semplice, a volte difficile. Perché la verità è in fondo qualcosa che cerchiamo sovente ma che non vigliamo alla fine mai accettare. Mai. Ed è la reazione naturale, chimica, fisica, di reagenti e reattori, di gas, di aria, di quella massa informe che sono i ricordi, di noi davanti al mondo, come gli occhi delle nottole si comportano nei confronti della luce del giorno, così anche l’intelligenza che è nella nostra anima si comporta nei confronti delle cose che, per natura loro, sono le più evidenti di tutte.

Di quei tempi, ricordava l’entusiasmo delle teorie, delle leggi, delle regole, della vita di coppia, di una famiglia, di essere genitore, del partire per giorni senza poter dire dove stare, senza poter chiacchierare con la gente delle cose che si sanno, che sono le uniche che tengono uniti i fili delle nostre relazioni. Senza poter essere più di uno, padre, agente dei servizi segreti, marito, casalingo, spettatore, contribuente, cliente, passante, amico. Ma solo uno, un unico grande e complesso agglomerato di essenze, e di assenze. Non poter essere mai, tranne che in una maniera sola, perché così si è deciso, così sono le regole, così sono le leggi che governano l’ordine delle cose. E di quelle assenza, oggi, proprio oggi, mentre fuori piove e mentre pensa alla figlia, prende per un attimo coscienza di come ci sia arrivato fin lì, di chi è diventato, di cosa si è perso. Gli venne per un attimo voglia chiamare la figlia e spiegarle tutto questo, ma non ne sarebbe stato capace, forse lei non avrebbe capito, forse l’avrebbe scambiato per matto. Ancora una volta la verità scompare nel cumulo, mentre si ricorda all’improvviso mettendo a fuoco per un attimo il faccione sulla parte opposta della finestra, che oggi è il giorno delle elezioni del Sindaco, che lui forse non avrebbe votato, ma che non può non votare, perché ha fiducia nella gente, e nella politica, nello stato. E quel Sindaco è l’evoluzione di quel compagno di corso in polizia un trentennio prima,  e che pensava di fare il poliziotto. I percorsi si complicano e si infittiscono sempre, e lui che della politica ha sempre ammirato con sarcastica devozione i discorsi, i comizi, gli annunci, le frasi preparate, il botta e risposta, le risse in tv, ancora una volta la verità, dov’ è la verità, non c’è mai traccia di verità perché non ci deve essere, uno cerca e l’altro fugge, ricrea, convince, e diventi spettatore, come di una gara sportiva, come di un rigore non dato la domenica prima, come di uno spettacolo che separa in due il mondo, quello vero e quello raccontato in tv o sui giornali. E quel Sindaco, di cui conosceva ogni cosa, si ripresentava per la seconda volta, sapendo bene che avrebbe dovuto fare di più, che certe cose non sono realizzabili, cambiare usi e costumi dell’uomo, eliminare ogni vizio, ogni peccato, agire sempre secondo massimi sistemi morali, in modo impeccabile, che il mondo è diverso a come lo vedi da fuori, che dentro le regole sono assai complesse e la verità, ancora una volta quella, la verità è meglio non saperla, non conoscerla neppure, è meglio ricercarla per puro spirito di competizione senza arrivare mai ad una soluzione, per avere sempre qualcosa da fare, da dover fare, qualcosa di cui qualcuno avrà sempre bisogno, dei soliti problemi di soldi, sempre lì è il problema, di soldi che vagano di mano in mano, di tante mani non troppo moralmente autorizzate a prenderli, ma che segue l’ordine delle cose, che puoi solo certe volte determinare. Ma una cosa è certa: come tutti quanti gli altri, il Sindaco dai passati principali morali impeccabili, è ora attore consapevole dello spettacolino ridicolo che fa parte dell’andare avanti, delle frasi, delle dichiarazioni, delle interviste, delle chiacchiere di circostanza, del voto, il voto, come strumento di scambio, fare da fulcro di una serie molteplice di esigenze, e di richieste, e di debiti che contrai, nel tempo, con tutti. Ed allora passi più tempo a sdebitarti che ad amministrare. Lui lo sa bene, e lo sa anche il nostro investigatore privato, che lo conosce bene, e che non sa ancora bene se votarlo o meno. O non votare affatto.

Non ho voglia, piove, ho freddo, chissà gli altri se andranno, cosa dicono i sondaggi, e i programmi, e le idee. Chi ha fatto o non fatto cosa, cosa penso dell’ambiente, della giustizia, del nucleare, della guerra, dei negri, dei crack finanziari, delle banche, del futuro, dei giovani, del lavoro, dei politici, della politica, dell’economia, come se davvero il mio voto alla fine sia un consegnare con una croce una serie di credo a lui, a loro, e quelli li, di cui mi aspetto molto, a cui ho consegnato il mio fardello di responsabilità, di cui so solo certe cose, di cui mi fido perché facciano il bene possibile, ed io voglio il bene possibile per tutti, quindi voto. Mi metto la giacca, e prendo l’ombrello. Ma no, io sono invisibile, non serve, e poi so bene che va a finire come al solito, che uno in meno o uno in più non cambia. Tanto vince lui.

Eppure il giorno delle elezioni è sempre stato un momento di incredibile curiosità. Di come tutti sembrano davvero uguali. Dei rituali, dei signori davanti ai grossi manifesti con i simboli dei partiti e dei candidati, per vedere chi c’è, per essere sicuri, per darsi una conferma, per vedere se ha scelto bene, per capire cosa scegliere, dei tizi dall’aria importante che aleggiano attorno ai seggi elettorali, che parlano, scrutano, criticano, parlottano. E poi la coda, in silenzio, la sala con i banchetti di quando si era piccoli, scolari, le cartine e i disegni sui muri, l’aria di innocenza, e di severità, la registrazione, il documento, la scheda, la matita, la cabina con il telo attorno, il faretto da campeggio messo lì alla buona per far luce, la croce, la mitica croce, il momento in cui senti di aver partecipato, in cui non sai come piegare la scheda perché troppo grande, in cui consegni tutto al tizio, e pensi che stia cercando di capire cosa hai votato, gli sguardi della coda che ancora attende mentre te ne vai, in cui incroci il Sindaco che passa tra le sezioni come una rock star e saluta tutti, i poliziotti cortesi che leggono il giornale e si annoiano, ma sono tranquilli. La quiete, tutto è in regola, e sembra funzionare perfettamente.

Si, prendo l’ombrello e vado. Anzi, no. Clara, mia figlia. E’ il suo primo voto, vado con lei.

Prende il telefono, pronto Clara?, puoi parlare?, sto andando a votare, andiamo assieme?, ci vediamo lì tra dieci minuti, a dopo, un bacio.

La verità è che se non dovesse votare per la prima volta Clara alla fine di tutto non sarebbe mai andato a votare.

Ebbene, nel momento in cui si concretizzavano forme reali di cose irreali, la realtà, nella sua smisurata forza, superò la fantasia, e così rimanetti a casa in attesa di una nuova opportunità. Valutai le strade da intraprendere, valutai quelle perdute. Valutai anche i tempi morti che si stavano accumulando enormemente sulla mia testa, lasciandomi un paio di passi indietro lungo la corsa verso il vuoto che la mia ombra svolgeva da tempo a ritmi già di per se precari. Valutavo anche se era il caso gioire di tutto questo, dopo aver per anni predicato e razzolato piuttosto discretamente, per evidente serenità superiori sopraggiunte. Così pensai al principio di Archimede. E’ un ricordo a colori sbiaditi di un decennio fa, tra i banchi del liceo, quando ero ignaro di tutto. Un corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del volume di fluido spostato. In parole povere, romanzando e reinterpretando un pò ignorantemente, se cadi verso il basso, c’è una forza, eguale e pari a l’entità del tuo peso, che ti tira su. Se cado risorgo, perché una spinta dal basso mi solleva. Mettendoci un pò di fantasia questa spinta si può aggiungere a spinte interiori che a volte vanno giù, a volte su, in gradi di rallentare e aumentare la potenza di una caduta o di un risorgimento. Esulando per un attimo formule matematiche, pesi e misure, e liquidi vari, rimane il movimento. E questo movimento è più o meno coordinato con gli umori in essere dell’uomo. Se dovessi applicare delle formule matematiche non ci sarebbe spazio per il dubbio, che, da qualche parte, una qualche spinta diversa dal solo peso e misure possano spingersi oltre. Considerato che Dio non esiste, si può però sostenere che qualcosa di divino ci appartiene nel nostro essere così capaci di modificare a nostro piacimento le forze che ci tengono in gioco.

E pensando, valutando, e rivalutando, il principio di Archimede mi suggeriva osservare i fenomeni della fisica. Vedere l’oggetto cadere, per un pò, per farlo immergere nel fluido delle cose, materiali e non, per sentire il gusto, raccogliere tutti i sensi, e trovare quella forza di slancio verso l’altro che l’oggetto aveva esaurito, rimanendo impantanato tra realtà e frustrazioni, tra realtà e immaginazione, tra realtà e qualcosa che aveva toccato con mano un paio di volte.

Ho valutato i conti lasciati in sospeso, i conti da pagare e da riscuotere, quanto ho pagato e quanto ho riscosso, e quanto, nel conto economico, attivo e passivo fossero così diversi. Ora ricordo persino il conto economico, quel libretto di contabilità che avevo letto con interesse all’università e che mi aveva occupato le settimane, riflettendo sui bilanci, i bilanci in rosso, i bilanci in regola, le stime di bilancio, l’analisi di bilancio, la partita doppia, o dio, la partita doppia. Non ne bastava una sola, ma due, doppia, per avere uno specchio che riflette la parte opposta di te, per non vedere quello che sei, o per vedere quello che non sei, si può vedere in due direzioni, palindromi della vita, come aceto nell’enoteca, eterni in rete, ora per poi io preparo.

E in uno dei due lati ho scoperto una serie di cose: che mi piacciono i commissari di polizia, o investigatori privati, ben venga. La letteratura ne è piena, ma le cose è bene conoscerle per caso. E’ così mi è giunto un investigatore privato, dal nulla. Era seduto nel suo studio, e pensava a tutte queste cose qua. Pensava a quello che era e quello che è, alla vita che sembra sempre insoddisfacente perché la si vede dal lato sbagliato e ci si commisera, perché è più semplice trovare un colpevole. Pensava alla figlia che oramai era cresciuta. Si sveglio come se non fosse mai passato del tempo da quando era un miliziano dei servizi segreti. Perché segreti? Perché anche la Società è un Palindromo. Ci sono le cose normali, quelle che tutti noi facciamo, tra un semaforo ed un altro, tra un numeretto ed un altro in coda alla posta, tra i banchi dei formaggi al supermercato, tra un litigio per il parcheggio ed  un altro, tra un film alla tv ed un altro, tra lo spazio in mezzo tra un individuo ed un altro. E poi ci sono le cose che sarebbero normali ma sono nascoste, perché non si devono vedere. Che in realtà sono normalissime, ma che per camuffarle di un aurea di impossibilità si tiene lontano dagli occhi. Sono le stanze dei bottoni, quelle dove passano in tanti, e tanti vogliono passare, per decidere, perché c’è qualcuno che si prende il diritto e il dovere di decidere, per se, per tutti, perché giace seduto lì dentro, in quella stanzetta barocca e raffinata, attorno a quel tavolo troppo grande per tenere tutti molto distanti, di fronte a persone come tutti, persone normali. E lì dentro si svolgono dialoghi dai toni ora tesi, ora gravi, ora scherzosi, ora solenni, molto pratici, molto più pratici e sinceri di quelli che noi, palindromi della normalità, non vediamo, perché non ci è concesso. Parlano i comunicati stampa, gli uffici stampa, l’addetto stampa, il portavoce, il vice portavoce, una nota del telegiornale, un commento politico, l’opinionista della par condicio, il presentatore schierato, il comico autoreferenziale incazzato, i blog, i giornali, gli uni contro gli altri. Ma di cosa? Al di là di tutto questo artificiare il reale contenuto di una cosa, la cosa in se qual’è? Ecco, è questo che è il mio margine di fantasia, che non conoscendo, e non sapendo minimamente perché sono dall’altra parte, mi invento come se davvero potesse essere l’altra strada del palindromo.

Nel frattempo, arriva un gran giorno, il grande giorno per ogni uomo politico che si rispetti. Il giorno delle elezioni.

…..to be continued

 

Niente, non si sa nulla di quello che sono le circostanze principali, quelle che i sensi riescono a captare automaticamente. Ma perchè? Perchè sapere e raccontare, perchè raccontare quello che non si sa bene, quello che è vago. Lassu, lontano dalle cose strettamente necessarie, come respirare aria, mangiare, vedere, ascoltare, lassu c’è un mondo più complesso, e forse più interessante. Non la psicologia principale, quella fatta di reazioni reali o folli, ma quella più profonda, la psicanalisi. I commissari inseguono cirminali, la psicanalisi insegue la zona d’ombra. Spesso qualcuno si fa male in entrambi i casi. Ed allora perchè cercare criminali, persone rispettabilissime per l’amor del cielo, che però hanno un po’ stufato con quest’immagine della vita e della morte così sempre sbattuta in primo piano, come tutto si risolvesse con vivere o morire. Cerchiamo di capire meglio noi stessi, è sempre quello che dico io ai pazienti per 100 euro l’ora. Vallo a dire a mia moglie che ora vive in un idromassaggio. Ma a parte tutto mi sento moralmente a posto. Non mi è mai capitato di piangere per qualche mio cliente che si è suicidato, se non solamente davanti al mio commercialista. E i ricordi, e tutto quello che è stato vivere una vita senza genitori, creati da un dio minore, anzi no, dal nostro dio, che poi ognuno ha il suo. Alla fine è tutta una questione religiosa. Ognuno si muove e cerca qualcosa, in realtà cerca solamente il suo dio, e tu ne sei un esempio, l’arte ne è un esempio, andare al di là dei puri sensi verso una dimensione irreale, che poi è il nostro personale rifugio. Tanto cosa conta capire cos’è reale e cosa non lo è.

Marcel si accascia sul letto della sua camera d’albergo. Non ha comunicato ancora alla reception per quanto tempo si dovrà fermare. Questo viaggio, questa ricerca potrebbe durare giorni, mesi, anni, o semplicemente cinque minuti. La fede e il caso. Ci sono questi due elementi a scaldare e riempire la mente ed il corpo di Marcel. La fede gli ha indicato la strada, la destinazione, l’obiettivo, omettendo il nocciolo della questione, che logicamente appare astratto e senza significato.

Ed i pensieri allora divengono macigni che non si possono sciogliere in un bicchiere di wishky, che accerchiano la testa di immagini della mente, di voci mai ascoltate, di volti di cui non si conosce l’identità, di interrogativi irrisolvibili. E poi il caso. Il caso non esiste Marcel, le cose avvengono per necessità Marcel, e tu sei lì su quel letto scomodo, asfissiato dal caldo e colmo di pensieri per necessità. Che scemo, pensa tra se e se Marcel. Ho seguito l’istinto, ho seguito il non senso, ed ora sono immerso nel non senso più assoluto. Io sono il non senso. Io non esisto più, tutto questo attorno, non esiste, esiste solo dentro e fuori di me e di nessun altro.

Si alza e si asciuga il sudore. Si avvicina alla finestra. C’è aria di vita in albergo. Vi si dirige. Magari quel whisky potrebbe servire a qualcosa.

Povere anime vaganti. Sembrano non trovare proprio pace. Decine di anime. Solitarie, pensierose, incuneate in drammi esistenziali che sembrano non avere mai fine. O che semplicemente si vogliono perpetuare per riempire il sacco, per non lasciare un vuoto che sarebbe definitivo, per non sentire l’assuefazione allo stare bene. Finalmente. Un volto amico.

Ti facevo più vecchio Cloud

Davvero? Siamo più o meno coetanei.

Speravo di incontrarti qui.

Anch’io. Infatti siamo qui tutti e due.

E sai anche perchè sono qui.

Certamente. Mi hai dato tu questa dote.

Whisky?

Certo.

Cameriere? Due Jack Daniels grazie.

Marcel si guarda attorno. Quello li è Alvin, un giovane violinista depresso e alcolizzato. Aspetta l’ispirazione bevendo rum. Sta puntando quella la di fronte, Jaqueline.

Cloud: Jaqueline è bellissima. Suo marito è fuori per affari e lei è sola. Così vuole essere. Ho provato a parlarle, ma, niente, il senso del dovere obbliga la gente a chiudersi in gabbie orrende.

Marcel:  Ma ad Alvin va bene così. A lui basta già quel vago senso di appagamento dei flirt occasioni ed avventurosi. Guarda troppi film. C’è così tanta gente qui da raccontare.

E io sono Cloud, psicanalista del tuo primo romanzo, lasciato da un giorno all’altro per darti ai gialli. Chissà perchè la gente preferisce i gialli alla mente. Sono stato bene, nonostante tutto. Ora lavoro da solo, mi piace definirmi cacciatore di anime perdute.

E’ sempre stato il tuo forte.

In quanto a te Kaula ti aspetta domani mattina, anzi, questa notte, dove vi siete conosciuti la prima volta, che poi è anche l’ultima. Ma davvero non ti ricordi?

Davvero, no.

E’ stata la prima volta che ti sei innamorato. E anche l’ultima.

Ed è stata anche la sua prima volta. E ora sta per sposarsi e non vi siete mai parlati.

Io davvero non ricordo.

Rimozione, si chiama rimozione. Le cose perdute si rimuovono, per stare a posto con la coscienza. Tu l’hai lasciata andare, perchè eri troppo impegnato con le tue storie.

Anche tu sei una di queste.

Si, ma io so che anche se non ci sei più, ci sei lo stesso. Tutti lo sanno qui. Sono felice sai?

Kaula…

Ti ricordi di Gaston?

Gaston, Gaston, il pescatore…si lo ricordo.

Ecco, l’hai consegnata a lei, su quella spiaggia, e lui, che è uomo coraggioso e semplice, se l’è presa.

Kaula…potrei sforzarmi di ricordare. Devo andare a fare due passi.

Si lo so, è tardi. C’è Dalì che ti aspetta fuori.

Il tassista.

Si, che poi è il tuo Bernad travestito da tassista.

Bernard Bureau, il mio commissario Bureau?

Si, il tuo alter ego. Vai.

Vado.

Requiem – Parte 2.


Arriva un treno dal passato. Stazione di Sousse, ultima fermata. Il Signor Marcel atterra per la prima volta e si immerge in quell’universo bianco di calore e confusionee. Una folla scomposta, un vociare continuo e chiassoso, clacson ovunque, ed un taxi che lo attende proprio davanti all’ingresso-uscita della stazione. Uno di quei taxi gialli. Di quelli un po’ svaniti dalle sue parti, ammodernati da una tecnologia senza memoria e senza più poesia.

Il Signor Marcel?, esordisce il tassista, si sono io, salve, piacere Dalì (Meraviglie della francofonia comune in un paese arabo). Piacere mio, Tej Marhaba per cortesia. Lo so Signor Marcel. La stavamo aspettando. In realtà il Signor Marcel non stava aspettando proprio nessuno, ma ignorò quei pensieri. Salgono in auto.

Prima volta in Tunisia?, Si vede tanto?,Si, sembri straniero, Marcel Ride,Italiano?,chiede il tassista,Si, metà italiano e metà francese,Sono stato due anni in italia ma poi mi hanno mandato via,Perchè?,il tassista ride,Problemi con la legge, Vivere da clandestino è un problema nel vostro paese,E’ un problema un po’ dappertutto, Cosa hai fatto per farti mandare via?,Droga,Marcel Ride,Va a finire sempre così, Vi fanno fare il lavoro sporco e poi vi mandano via, ma i veri responsabili rimangono sempre dove sono sempre stati, e nessuno li vede,Qualcuno deve fare la parte del colpevole,E in Francia? Perchè non sei stato in Francia? Dovrebbe essere più semplice per voi,No, La Francia no. Si sentono sempre migliori di tutti, non mi piacciono i francesi,Non siamo tutti così,Ma tu sei metà italiano e metà francese,E allora?,E’ diverso. L’italiano è un popolo d’amore. I francesi invece sono un popolo di libertà, e tu sei un po’ tutte e due,E voi che popolo siete?,Anche noi siamo un popolo d’amore.  Silenzio. Il tassista si incazza nella sua lingua per incomprensioni automobilistiche. Comiche. Che ci fa qui a Sousse?,Devo incontrare una persona,Una donna eh?, ride, Forse, Si una donna, ve lo dico io, Perchè non mi dici anche quando devo morire così mi organizzo?, Dai, non prendertela, stai facendo il francese adesso, Io sono metà anche francese. Silenzio. Vedrà. Si troverà bene. Sousse è una bella città, ed ha un mare stupendo. Ecco qua Tej Maharaba, Marcel da dei soldi al tassista e scende. Lo sguardo del tassista diventa strano, quasi complice di un mistero.  Ti auguro di incontrarla prima che sia troppo tardi Marcel.  Marcel rimane in silenzio, un po’ sorpreso, un po’ spaventato, quindi entra in albergo.

Un atomosfera gioviale, una sosta forzata dall’incertezza, dalla confusione, dall’inerzia; si sentiva presuntuosamente al centro di un mondo che aveva inconsciamente creato lui, spinto da pulsioni interiori, non sapendo di togliere, non sapendo di dare, non sapendo nulla se non deliziarsi di quella compagnia naturale che le parole e le sue evocazioni ricreavano nella sua mente e in quelle dei suoi lettori. E non sapeva davvero chi fosse quella donna, e dove si trovasse in quel momento, se non nel pacchiano bar della reception dell’ albergo Tel Maharaba in una piccola cittadina turistica araba sul mare, brulicante di vite desiderose di esistere, o anche semplicemente di trascorrere del tempo lì, nelle sue contraddizioni, nelle smanie e gli scoramenti quotidiani, nei sorrisi e negli sguardi di donne meravigliose, nel pragmatismo tipico degli arabi, dei musulmani, in quella genuina e buona schiettezza un po’ similar sud-italiana che spesso mette a disagio.

 

Storie da cinema – Work in progess

Pubblicato: dicembre 10, 2010 in storie
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Sto costruendo una storia per il mio prossimo corto. E nasce come sempre dentro di me da un’esperienza più complessa, più ridondante, che passa naturalmente dalla narrativa.  Questo è il mio incipit narrativo. Da questo ci sarà un proseguo, un soggetto, un trattamento, una sceneggiatura, un corto. E sarà divertente ed interessante vedere (almeno per me) tutta la sua fase di costruzione, a partire da questo incipit.

Requiem (parte1)

Un sorriso smagliante, una danza erotica, il suono dell’argenteria che ha indosso come addobbi nuziali. Si nuziali. Quella donna è in abito nuziale. Quella donna ha un nome che sembra non appartenergli, nella vita reale o in quella immaginata, ma il suo volto, il suo sguardo, la sua danza tentatrice, è come un invito ad una congiunzione astrale impossibile. Come poter spiegare a se stesso i segni del conscio e dell’inconscio, come poter rispondere agli stimoli quotidiani, così affaccendati alla sopravvivenza. Il Signor Marcel è un animo sensibile, di questo sono pronti tutti a testimoniarlo. Dopo decine di libri su personaggi impossibili, spettrali, il minimo che possa capitare e che quegli spettri un bel giorno gli si rivoltino contro, come un pagano giudizio universale; dopo avergli dato vita eterna, dopo averli liberati nel mondo del non reale senza mai più riposo.

Le strade presentano vie molteplici, e nel limbo delle vite terrene esse tessono tracce invisibili e inconoscibili. Di queste strade, il Singor Marcel ne ha tracciate assai molte, per lo più di fantasia, e di ogni traccia il sapore di un luogo reale ha lasciato in lui un sapore agrodolce di ricordo, quel ricordo di cui gli umani si riempiono per farsi un po’ compagnia con se stessi. Ma sono immagini della mente, riflesso incondizionato di quello che è stato e di quello che i sensi hanno impresso, da qualche parte. Ed allora il confine tra il ricordo e l’immaginazione è assai sottile, poiché il passato è un immagine in trasformazione del non più esistente, è un artificio di ciò che è realmente esistito, di ciò che è inventato, di ciò che è un mescolenza dei due. L’artificio ha la stessa forma per tutti e dunque non fa differenza, così come gli umani sono umani, e per quanto esteriormente differenti, sono fatti totalmente della stessa materia.

Ma di quella donna davvero il Signor Marcel non ha colpe. Non gli è imputabile difatti l’etermo reato di averla accudita e liberata dalla realtà. Anche perchè da tempo il Signor Marcel non fa più quel mestiere. Ha deciso di chiudere la stanza dei segreti, ed in quel misterioso labirinto di spettri non ha più percorso neppure un metro. Forse per paura, forse per stanchezza, forse perchè l’animo non è più pronto ed allentato per affrontare l’ennesimo lungo e tortuoso viaggio, forse perchè col tempo si è reso conto che a percorrere percorsi alternativi si perde il senso della realtà, e con esso, dell’esistenza terrena, o forse, perchè la nostalgia del passato lo ha tormentato tutta una vita come una malattia senza guarigione. Ed allora talvolta accade, che quella strana malattia, in lui, prende il sopravvento. Ed allora, le conseguenze, sono davvero imprevedibili.

 

 

L’esperienza del blog è qualcosa che mi porto dietro da quando ho cominciato a fare questo mestiere. Lì infatti ho annotato dal primo giorno le smanie e i saliscendi della mia avventura da filmaker. Ha accudito i miei pensieri come una chioccia confortevole, negli anni, nei mesi, nei giorni, lasciandomi quell’intimità della parte narrativa che prima di tutto ha fatto parte di me, prima ancora di scoprirmi dapprima affascinato, poi indaffarato e perfino un pò disgustato dall’ambiente vago del video e dei suoi derivati come mezzo di espressione artistica.

In tutto ciò però nel tempo si è lievemente affievolita quella volontà e quella necessita di comunicare (chissà poi per quale motivo) le proprie gesta. Ma niente di eroico, gli eroi non esistono, gli eroi ce li inventiamo noi per dare una forza maggiore alle cose, a volte per necessità di emulare, a volte per avere un vago punto di riferimento con cui convivere, a volte per non sentirsi davvero mai soli.

Al contempo però la vita di questi tempi ha intaccato quella contraddittoria tendenza a tenersi tutto dentro e a comunicare allo stesso tempo tutto quanto, seguendo quel sesto senso naturale  di far parte di una “rete” che davvero ha rappresentato nella vita e nella storia delle persone (per lo meno della mia generazione) un passo epocale. E in queste contraddizioni ci si dimentica chi si è davvero e cosa si sta facendo, nella frenesia della sopravvivenza la lotta è l’affermazione, la lotta è il vedere che al fondo della strada che si sta percorendo c’è, almeno apparentemente, almeno un varco per proseguire.

Per di più crescendo si diventa noiosi. La si scambia per saggezza, per maturità, ma di un pò di quell’ingenuità e di quell’ impulsività che mi ha guidato fino a qui ne sento davvero la mancanza. Perchè mi ha dato una marcia in più a fare cose che non avrei mai fatto. Crescendo si diventa più cauti, con l’esperienza si diventa più consapevoli, a volte un pò arroganti, saccenti, altezzosi, presuntuosi.

Ho dovuto apprendere che l’arte è un industria. E’ stato difficile accettarlo. Un pò quando ho scoperto da bambino che alla fine della vita c’è la morte. Mi ricordo benissimo, ci sono rimasto male per giorni, chiedevo conferme e sembravano tutti così sereni. Tanto c’era un Dio, una vita oltre, qualcosa dopo, altrove. Non mi soddisfava quella risposta eppure ogni tanto ci penso.  La natura delle cose è così spietata, eppure nella sua essenza semplice e netta, nelle sue regole così dimostrabili non riesco ancora a concepire le regole dell’arte.

Dietro la porta di dentro c’è un luogo nascosto di cose complesse e meravigliose. Si cerca giorno dopo giorno una consapevolezza sincera, sempre più sincera e poi nella condivisione, nello stabilire un rapporto, una connessione mistica, un’empatia complessa, la sfida più grande di tutte.

Ma una cosa è certa: di quello che sarà non ho alcuna idea, e questo blog è l’unica cosa davvero in grado di darmi nel tempo delle risposte accettabili per comprendere quello che sono stato, passo dopo passo, come piccole istantanee del passato.  Solo così riuscirei a guardarmi davanti allo specchio di una pagina bianca per compiere una nuova avventura. L’ho scritto più volte, ma questo ennesimo ri-esordio ne è l’esempio, ed è un pò la metafora della mia vita, e penso anche di chi fa questo mestiere: alla fine di un viaggio c’è sempre un altro viaggio da ricominciare.