Dicevo? Ah, si. Il giorno delle elezioni. E delle valutazioni, e delle “palindromie”, e delle stanze dei bottoni, e dell’investigatore privato che pensava a sua figlia. Già, perché si fa presto a dire genitori.
Dal punto di vista etimologico è chiaro, ma suppone un assenza dell’atto seguente al semplice generare, procreare, dare vita, essere padre. Era sempre lì il nostro bravo investigatore privato, che incontrai in quello studiolo triste e spoglio di quella città troppo grande per dar posto a quiete, silenzio, solitudine. No, quella città è troppo grande per essere soli. Incrociava gli sguardi dei passanti senza essere visto. Oramai era abitudine non farsi vedere, non dare nell’occhio, quasi da convincersi malinconicamente di non esistere più. Eppure è li davanti alla finestra. E piove, pensando alla figlia, e scoprendo con lei, a poco a poco, il significato della parola vita. Dai tempi in cui lavorava per il governo, sempre da solo, sempre in incognito, sempre invisibile, sempre in vicende e faccende che nessuno poteva sapere, perché ci sono quei segreti inconfessabili che salvano la verità dagli effetti stessi che la verità provoca a se stessa e agli altri.
E come aria si dissolveva nei silenzi e nei rumori indiscreti delle nostre vite. Come aria il vero e il falso si aggiungeva a quel miracoloso marasma di gas, di azoto, ossigeno, argon, vapore acqueo, biossido di carbonio, neon, elio, metano, idrogeno, kripton, xeno, ozono, ossidi di azoto, monossido di carbonio, ammoniaca, biossido di zolfo, solfuro di idrogeno, e quindi alle tavole di chimica, alla reazioni, ai reagenti, i prodotti, il bilanciamento delle masse, che nulla si crea e nulla si distrugge, e di quanto passi gran parte della vita a subire un sacco di insegnamenti quando non sei assolutamente pronto e conscio delle cose, del fatto che prima o poi quell’insegnamento ti servirà a qualcosa, e che forse ti verrà in mente, almeno per ricordare quando ti è capitato di imparare, con chi, quando non capivi quanto un giorno ti sarebbe servito. Prima o poi. E la verità allora diventa uno scherzo, un gioco, una missione, una vittoria, la fine dei tuoi sforzi. Se ciascuno può dire qualcosa intorno alla realtà, e se, singolarmente preso, questo contributo aggiunge poco o nulla alla conoscenza della verità, tuttavia, dall’ unione di tutti i singoli contributi deriva un risultato considerevole. Ed allora la ricerca diventa un compito a volte semplice, a volte difficile. Perché la verità è in fondo qualcosa che cerchiamo sovente ma che non vigliamo alla fine mai accettare. Mai. Ed è la reazione naturale, chimica, fisica, di reagenti e reattori, di gas, di aria, di quella massa informe che sono i ricordi, di noi davanti al mondo, come gli occhi delle nottole si comportano nei confronti della luce del giorno, così anche l’intelligenza che è nella nostra anima si comporta nei confronti delle cose che, per natura loro, sono le più evidenti di tutte.
Di quei tempi, ricordava l’entusiasmo delle teorie, delle leggi, delle regole, della vita di coppia, di una famiglia, di essere genitore, del partire per giorni senza poter dire dove stare, senza poter chiacchierare con la gente delle cose che si sanno, che sono le uniche che tengono uniti i fili delle nostre relazioni. Senza poter essere più di uno, padre, agente dei servizi segreti, marito, casalingo, spettatore, contribuente, cliente, passante, amico. Ma solo uno, un unico grande e complesso agglomerato di essenze, e di assenze. Non poter essere mai, tranne che in una maniera sola, perché così si è deciso, così sono le regole, così sono le leggi che governano l’ordine delle cose. E di quelle assenza, oggi, proprio oggi, mentre fuori piove e mentre pensa alla figlia, prende per un attimo coscienza di come ci sia arrivato fin lì, di chi è diventato, di cosa si è perso. Gli venne per un attimo voglia chiamare la figlia e spiegarle tutto questo, ma non ne sarebbe stato capace, forse lei non avrebbe capito, forse l’avrebbe scambiato per matto. Ancora una volta la verità scompare nel cumulo, mentre si ricorda all’improvviso mettendo a fuoco per un attimo il faccione sulla parte opposta della finestra, che oggi è il giorno delle elezioni del Sindaco, che lui forse non avrebbe votato, ma che non può non votare, perché ha fiducia nella gente, e nella politica, nello stato. E quel Sindaco è l’evoluzione di quel compagno di corso in polizia un trentennio prima, e che pensava di fare il poliziotto. I percorsi si complicano e si infittiscono sempre, e lui che della politica ha sempre ammirato con sarcastica devozione i discorsi, i comizi, gli annunci, le frasi preparate, il botta e risposta, le risse in tv, ancora una volta la verità, dov’ è la verità, non c’è mai traccia di verità perché non ci deve essere, uno cerca e l’altro fugge, ricrea, convince, e diventi spettatore, come di una gara sportiva, come di un rigore non dato la domenica prima, come di uno spettacolo che separa in due il mondo, quello vero e quello raccontato in tv o sui giornali. E quel Sindaco, di cui conosceva ogni cosa, si ripresentava per la seconda volta, sapendo bene che avrebbe dovuto fare di più, che certe cose non sono realizzabili, cambiare usi e costumi dell’uomo, eliminare ogni vizio, ogni peccato, agire sempre secondo massimi sistemi morali, in modo impeccabile, che il mondo è diverso a come lo vedi da fuori, che dentro le regole sono assai complesse e la verità, ancora una volta quella, la verità è meglio non saperla, non conoscerla neppure, è meglio ricercarla per puro spirito di competizione senza arrivare mai ad una soluzione, per avere sempre qualcosa da fare, da dover fare, qualcosa di cui qualcuno avrà sempre bisogno, dei soliti problemi di soldi, sempre lì è il problema, di soldi che vagano di mano in mano, di tante mani non troppo moralmente autorizzate a prenderli, ma che segue l’ordine delle cose, che puoi solo certe volte determinare. Ma una cosa è certa: come tutti quanti gli altri, il Sindaco dai passati principali morali impeccabili, è ora attore consapevole dello spettacolino ridicolo che fa parte dell’andare avanti, delle frasi, delle dichiarazioni, delle interviste, delle chiacchiere di circostanza, del voto, il voto, come strumento di scambio, fare da fulcro di una serie molteplice di esigenze, e di richieste, e di debiti che contrai, nel tempo, con tutti. Ed allora passi più tempo a sdebitarti che ad amministrare. Lui lo sa bene, e lo sa anche il nostro investigatore privato, che lo conosce bene, e che non sa ancora bene se votarlo o meno. O non votare affatto.
Non ho voglia, piove, ho freddo, chissà gli altri se andranno, cosa dicono i sondaggi, e i programmi, e le idee. Chi ha fatto o non fatto cosa, cosa penso dell’ambiente, della giustizia, del nucleare, della guerra, dei negri, dei crack finanziari, delle banche, del futuro, dei giovani, del lavoro, dei politici, della politica, dell’economia, come se davvero il mio voto alla fine sia un consegnare con una croce una serie di credo a lui, a loro, e quelli li, di cui mi aspetto molto, a cui ho consegnato il mio fardello di responsabilità, di cui so solo certe cose, di cui mi fido perché facciano il bene possibile, ed io voglio il bene possibile per tutti, quindi voto. Mi metto la giacca, e prendo l’ombrello. Ma no, io sono invisibile, non serve, e poi so bene che va a finire come al solito, che uno in meno o uno in più non cambia. Tanto vince lui.
Eppure il giorno delle elezioni è sempre stato un momento di incredibile curiosità. Di come tutti sembrano davvero uguali. Dei rituali, dei signori davanti ai grossi manifesti con i simboli dei partiti e dei candidati, per vedere chi c’è, per essere sicuri, per darsi una conferma, per vedere se ha scelto bene, per capire cosa scegliere, dei tizi dall’aria importante che aleggiano attorno ai seggi elettorali, che parlano, scrutano, criticano, parlottano. E poi la coda, in silenzio, la sala con i banchetti di quando si era piccoli, scolari, le cartine e i disegni sui muri, l’aria di innocenza, e di severità, la registrazione, il documento, la scheda, la matita, la cabina con il telo attorno, il faretto da campeggio messo lì alla buona per far luce, la croce, la mitica croce, il momento in cui senti di aver partecipato, in cui non sai come piegare la scheda perché troppo grande, in cui consegni tutto al tizio, e pensi che stia cercando di capire cosa hai votato, gli sguardi della coda che ancora attende mentre te ne vai, in cui incroci il Sindaco che passa tra le sezioni come una rock star e saluta tutti, i poliziotti cortesi che leggono il giornale e si annoiano, ma sono tranquilli. La quiete, tutto è in regola, e sembra funzionare perfettamente.
Si, prendo l’ombrello e vado. Anzi, no. Clara, mia figlia. E’ il suo primo voto, vado con lei.
Prende il telefono, pronto Clara?, puoi parlare?, sto andando a votare, andiamo assieme?, ci vediamo lì tra dieci minuti, a dopo, un bacio.
La verità è che se non dovesse votare per la prima volta Clara alla fine di tutto non sarebbe mai andato a votare.